Decesso per tromboembolia massiva dell’arteria polmonare e dei suoi rami

La tromboembolia venosa (TEV) è tra le patologie cardiovascolari più frequenti assieme all’ischemia miocardica e all’ictus cerebrale. È una condizione anatomo-clinica caratterizzata da una patologia trombotica a carico del sistema venoso superficiale e/o profondo degli arti inferiori. La tromboembolia polmonare (TEP), la sua complicanza più temibile, è responsabile di oltre 200000 decessi l’anno solo negli Stati Uniti. Il primo momento eziopatogenetico della TEP è solitamente rappresentato dalla trombosi venosa profonda (TVP) prossimale, da cui si può verificare il distacco di frammenti trombotici e la successiva migrazione embolica nel circolo polmonare con interruzione più o meno completa del flusso ematico. Concorrono nella genesi tromboembolica singoli o associati fattori di rischio, correlati al paziente (età avanzata, obesità, gravidanza, malattie infettive, cardiopatie scompensate, varici venose, patologia tumorale, trombofilia), a particolari traumi (fratture del bacino e degli arti inferiori) e ad occasioni a rischio (allettamento prolungato, interventi chirurgici ed ortopedici).

Dal punto di vista patogenetico, ancora oggi è valida la triade di Virchow che vede nelle alterazioni della parete vasale, nelle alterazioni di flusso e nella iper-coagulabilità ematica, i fattori principali della TVP.

I decessi causati da TEP sono spesso di interesse giudiziario per la frequente preesistenza di un evento traumatico, la repentinità della morte e gli eventuali profili di colpa professionale medica.

La diagnosi precoce della TEV e della TEP è talora di difficile attuazione e richiede, da parte dei sanitari curanti, una scrupolosa valutazione clinico-anamnestica del paziente: la TEV può essere totalmente asintomatica qualora non si determini una completa occlusione del circolo venoso prossimale o non si associ a flogosi vascolare o perivascolare; la TEP fatale ha solitamente esordio imponente ed improvviso, cronologicamente collocabile poco prima del decesso e quindi inconciliabile con l’adozione di conseguente intervento terapeutico efficace.

La diagnosi clinica di TVP può essere complessa per l’elevata frequenza di forma asintomatiche o paucisintomatiche. È indispensabile un’attenta valutazione  della storia clinica e dell’obiettività fisica del paziente. I sintomi più comuni, che devono rappresentare un campanello d’allarme, sono il dolore, l’edema e una lieve colorazione blu-rossastra della cute. La cianosi marcata o il pallore sono molto meno comuni. Più il trombo è prossimale più intensi sono i sintomi ed i segni fisici.

Il sintomo clinico più comune, ma aspecifico, è la dolorabilità alla compressione dei muscoli del polpaccio o indotta dalla pressione lungo il decorso delle vene del polpaccio stesso. L’edema rappresenta un altro segno clinico caratteristico della TVP. Se lo stesso raggiunge il piede ed il polpaccio si può ipotizzare una TVP estesa fino alla vena poplitea. L’edema dell’intero arto è spesso associato ad una trombosi femoro-iliaco-cavale.

Il dolore alla dorsi-flessione del piede (test di Homams), sebbene caratteristico, non è però sempre affidabile, perché negativo in una elevata percentuale di casi.

Nella diagnosi della TVP la metodica ultrasonica dell’eco-color-doppler ha dimostrato un’eccellente affidabilità nel rilevare la presenza di ostruzioni venose profonde prossimali con una sensibilità dell’88% e una specificità del 92%, che scendono entrambe intorno al 60% in caso di TVP distale.

Tali aspetti risultano confermati dagli studi necroscopici: già nel 1990 Daisley su un campione di 610 referti autoptici, rilevava come la TEP, principale causa di morte (10%) con prevalente origine dalla TVP femoro-poplitea (72%), era stata sospettata ante-mortem solo nel 19% dei casi.

Nel caso in cui si riscontri un quadro clinico compatibile con TEP sarà necessario approfondire l’anamnesi iniziale, al fine di individuare con maggiore precisione possibile i fattori di rischio. Va sempre indagato se la dispnea ed il corteo sintomatologico d’esordio siano insorti in seguito a manovre particolari, quali alzarsi dal letto, lo sforzo della defecazione o comunque una iperventilazione di qualsiasi origine, manovre queste che determinando un aumento della pressione venosa e la conseguente distensione delle vene degli arti inferiori e/o di quelle addominali possono condurre al distacco del trombo dalle pareti della vena ed alla sua successiva frammentazione. È necessario anche chiedere al paziente se nei giorni antecedenti la comparsa della sintomatologia era presente sensazione di tensione o un senso di pesantezza localizzata in corrispondenza della coscia o dolore al polpaccio, magari iniziato bruscamente, accentuato dalla posizione eretta e dalla deambulazione, tendente al alleviarsi o scomparire con il riposo in posizione supina e/o con il sollevamento dell’arto.

La profilassi farmacologica mirata a ridurre lo stato di ipercoagulabilità ematica rappresenta la strategia terapeutica elettiva della malattia tromboembolica. I farmaci sinora utilizzati comprendono: le eparine, il dermatan solfato, gli anti-coagulanti orali (come la warfarina) e gli antiaggreganti piastrinici (come acido acetilsalicilico).

Questi farmaci possono essere usati da soli o in associazione con mezzi fisici di profilassi, quali le calze elastiche, i filtri cavali e la compressione pneumatica intermittente (CPI).

La scelta del più adeguato regime di profilassi va ponderata in ragione di un attento inquadramento clinico del singolo caso e del rapporto rischi-benefici. In proposito la Sixth Consensus Conference on Antithrombotic Therapy dell’American College of Chest Physicians ha proposto agevoli tabelle di valutazione del rischio di TEV nei pazienti internistici e chirurgici, consigliando nei casi di rischio lieve, medio e grave, la profilassi farmacologica eparinica con o senza mezzi fisici.

In ogni singola classe di rischio, l’assenza di misure profilattiche incide significativamente sull’incidenza di eventi tromboembolici.

I dati relativi all’incidenza di TEP clinicamente manifesta in chirurgia generale, sono relativamente bassi (circa 1.5%, con 0.5% di TEP fatale).

Un altro aspetto molto importante in chirurgia generale riguarda l’epoca ottimale di somministrazione sia dell’LDUH che delle LMWH. Entrambe sono solitamente somministrate circa 2 ore prima dell’esecuzione dell’intervento, con la finalità di contrastare l’attivazione della cascata emocoagulativa che ha luogo nel corso dell’intervento e di prevenire in tal modo il formarsi iniziale del trombo. Relativamente alla durata ottimale della profilassi, sono sufficienti 5-7 giorni; periodi più lunghi di profilassi sono in relazione ad eventuali allettamenti particolarmente prolungati.

I dati relativi all’incidenza di TVP in chirurgia ortopedica indicano che le TEP fatali senza profilassi sono ≥ 1%. In tale ambito, il rischio di TVP, senza profilassi, è di gran lunga minore (5%) nel caso di interventi in artroscopia,  ma sempre con l’elettività della profilassi con LMWH (preferibilmente enoxaparina) in combina-zione con la CPI.

I risultati dello studio MEDENOX hanno confermato l’efficacia delle LMWH nelle patologie mediche: il rischio di TEV in 1102 pazienti (di età > 40 anni, ospedalizzati per almeno 6 giorni, con cardiopatia, insufficienza respiratoria, malattia infiammatoria intestinale, infezioni, reumatismi) era comparabile a quello di pazienti chirurgici a moderato rischio trombo embolico (circa 25%). In questi pazienti fattori di rischio addizionali erano rappresentati dall’età > 75 anni, dal cancro, precedente TEV, obesità, vene varicose, terapie ormonali, cardiopneumopatie croniche. La somministrazione di enoxaparina, alle dosi di 40 mg/die s.c. (ma non di 20 mg/die), riduceva il rischio del 63% (p < 0.001 verso placebo), e il beneficio persisteva sino a 3 mesi di distanza.


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